Elementi di mentalismo nei primati umani

In quest’articolo la Dott.ssa Cultrera descrive la comparsa del mentalismo nel primate umano.

La capacità di “mentalismo” appare distribuita in modo estremamente eterogeneo nei primati non umani. In un precedente articolo, sempre dedicato al Mentalismo nei Primati, in un punto apparentemente contraddittorio, ho scritto che solo negli scimpanzé questi primi stati mentali raggiungono forme organizzative complesse e articolate. In essi viene evidenziata quella che gli inglesi chiamano mindreading, cioè la capacità di attribuire intenzioni agli altri, ed il pretending, cioè la conoscenza degli stati interni altrui. Si ritiene che queste primordiali acquisizioni nel corso dell’evoluzione abbiano migliorato la coordinazione del gruppo attraverso “l’intuizione delle intenzioni” percepite negli altri, perchè questa condizione già incrementava il senso di “individuazione” con la differenziazione di una dimensione del , per quanto rudimentale, sia come “soggetto” che come “oggetto”.

Guidano (2019) attribuisce grande importanza al mentalismo, da lui definito come una sorta di “ricorsività capace di modellare e modificare due processi interconnessi il mindreading ed il pretending”.

La tendenza all’”esistenza di un mondo mentale” è emerso nel variegato ordine dei primati ed è variamente distribuito tra scimmie, primati antropomorfi e umani. Le scimmie riconoscono le “convinzioni” errate, ma sono incapaci di agire in base a queste informazioni. L’apprendimento avviene solo attraverso l’osservazione e le capacità di imitazione sono ridotte. Nei branchi dei machachi o dei babbuini, ad esempio, i componenti riescono a capire che un compagno sta commettendo un errore nella coordinazione in corso e intuiscono anche lo stato d’animo che accompagna l’elemento che sbaglia e che probabilmente è causa dell’errore, ma non possono intervenire per modificarne il comportamento, poichè non hanno conquistato stati mentali superiori; quindi, osserviamo solo un affiorare di una forma primordiale di mentalismo.

Gli esperimenti dimostrano che il riconoscimento allo specchio avviene negli oranghi, negli scimpanzé e nell’uomo, ma non nel gorilla. Si ritiene che gli scimpanzé possiedano un piccolo accesso (insight) alle menti dei loro compagni e forse anche ad una loro continua esistenza temporale sotto forma narrativa (Povinelli, 1998).  Le scimmie sono totalmente incapaci di immagazzinare o richiamare ricordi di specifici eventi (memoria semantica) e hanno anche una scarsa memoria episodica, per cui gli elementi mnestici non possono essere riportati “consapevolmente” alla coscienza entro cornice contestuale di conoscenza delle componenti spazio-temporali in cui sono accaduti.

Negli scimpanzé oltre al riconoscimento di sé è comparso:

1. La capacità di usare gli oggetti, ovvero l’emergere di una primordiale meta-          rappresentazione in simultanea con la presenza di una percezione primaria, condizione che comporta il vedere il sé come soggetto e come oggetto.

2. La comparsa dell’insight, cioè di una sorta di meta-rappresentazione che cominciava a rendere possibile la capacità di vedere oltre la percezione primaria.

Un filosofo del linguaggio F. Ferretti (2010) ha affermato che la sopravvivenza degli organismi è legata alla loro capacità di anticipare il futuro. Egli parla di “intelligenza temporale”, caratteristica tipica solo degli animali sociali.

Il concetto di sé e le self conscious emotions (Lewis, 1992) sono necessariamente legate al concetto ed alla valutazione (appraisal) degli altri. L’esperienza di sé e degli altri sono dialetticamente unite. Due sono le caratteristiche fondamentali con cui il mentalismo compare nei primati: la capacità di attribuire intenzioni e stati d’animo ad altri componenti del gruppo e la nuova abilità acquisita di fingere. “Fingere” vuol dire non far trasparire i propri stati interni agli altri, nascondere la vera attivazione emotiva e la propria autentica volontà e rappresentò una strategia di sopravvivenza per il gruppo nel confronto con gli altri.
Il mentalismo non nasce spontaneamente, bensì come possibilità di manipolare i propri stati interni e quelli degli altri. Ad esempio, non mostrare paura al fine di non influenzare negativamente il coordinamento del gruppo e, quindi, riuscire a non avvantaggiare il nemico era un’operazione che spesso salvava la vita di tutti e il cui significato sociale cominciava ad assumere l’accezione dei comportamenti di difesa, ma ad un livello cognitivo più elevato.

Questo è interessante perché “la conoscenza” fa la sua comparsa con la capacità di fingere intesa come un’azione esistenziale, finalizzata alla sopravvivenza.

Il mentalismo comparirebbe, quindi, in quanto esigenza selettiva interna in un gruppo che si regge sull’inter-soggettività. La conoscenza di cui siamo portatori è sorta per necessità interne, per raggiungere livelli di controllo, di regolazione nei rapporti degli uni con gli altri in modo efficace.

La conoscenza di sé è collegata con l’autenticità ed il riconoscimento emozionale degli altri componenti. Pertanto, nei primati umani e non umani l’evoluzione della conoscenza di sé porterà alla nascita della coscienza ed alla individuazione umana.

Le considerazioni preliminari che ne derivano sull’emergenza del primate umano sono abbinate al cosiddetto constraint, cioè ad un vincolo specifico nello sviluppo della conoscenza: “quello di non potere considerare l’apparenza fenomenica della realtà”.

Nei primi umani l’evoluzione del linguaggio porta ad un incremento esponenziale del mentalismo!

Sicuramente la vocalizzazione cominciò a diventare un elemento centrale nell’Homo Erectus. L’Erectus ricordiamo che precede la comparsa dell’Homo di Neanderthal. Prima c’erano gli Ominidi, che includevano tutto il gruppo degli australopitechi, i quali, rappresentano uno dei ceppi più consistenti dell’evoluzione umana. La nostra Lucy è una πίθηκος (scimmia) australis (meridionale)!

Gli australopitechi avevano già una posizione eretta, ma ancora nessuna forma di linguaggio differenziato. Possedevano degli strumenti e la capacità di utilizzarli come il chop, un sasso spaccato in due che rappresentò il massimo della tecnica che raggiunsero. Ci sono, però, varie generazioni e specie di Australoptechi oltre a Lucy, che fu una delle prime. Dopo arrivò, evolutivamente parlando, l’Homo Habilis, la cui capacità cranica si aggirava intorno ai 600cc, che conosceva l’uso di strumenti e riusciva a lavorare la selce. L’ultimo fu l’Homo Erectus che rappresentò una specie molto stabile e, infatti, ebbe una sopravvivenza di due milioni di anni, ciò indica che aveva un ottimo adattamento all’ambiente. Va tenuto presente che l’età media di una specie è tra i 3 e i 4 milioni di anni e che noi sapiens viviano da 40.000 anni. L’Erectus cominciò a vivere in branchi più grandi con una vantaggiosa organizzazione di lavoro, fu un agricoltore e raccoglitore e sperimentò anche un’organizzazione gerarchica del branco. Sembra che l’Homo Erectus sia stato il primo a mantenere la coesione del gruppo attraverso il vocal grooming (enfasi della vocalizzazione). All’inizio il controllo della voce attraverso la tonalità fu un pattern sufficiente a diffondere un sentimento di coesione, una modalità attraverso la quale si potè cominciare a stabilire un controllo consapevole e coordinato della vocalizzazione senza presupporre nessuna capacità simbolica né nessun’altra competenza cognitiva avanzata.

Il linguaggio più vicino al nostro compare e appartiene sicuramente all’Homo Sapiens Sapiens, che appare sulla Terra per la prima volta tra i 50 e i 40.000 anni fa e si diffonde nel mondo da circa 60.000 anni.

Sino al Neanderthal ci sono solo vocalizzazioni, anche complesse, strutturate, ma si tratta sempre di vocalizzi come sono presenti nel mondo delle scimmie e dei primati.

C’è un accordo quasi unanime tra i paleontologi che il Neanderthal possedesse una forma di linguaggio, diverso dal nostro, anche se non conosceva le vocali. Probabilmente il Neanderthal è il primo che parla nel senso del linguaggio propriamente detto!

Una modifica anatomica è la trasformazione della glottide che assume capacità fonatorie particolari, presenta importanti modifiche a livello dell’attaccatura alla base del cranio, all’altezza del foro occipitale. Sappiamo che l’Homo Erectus non parlava perché non aveva queste modifiche strutturali alla base del cranio, che, invece, cominciano a comparire nel Neanderthal e, poi, in tutti i Sapiens Sapiens. Naturalmente non abbiamo notizie delle modifiche iniziali delle parti molli dell’apparato oro-buccale in quanto deperibili e ormai perdute.

Il linguaggio è un’innovazione esclusivamente umana che ha sconvolto ogni cosa e che non è comparabile con nessun’altra capacità o abilità che l’uomo ha in più rispetto ai primati. Cheney e Sefarth (2007) hanno sostenuto attraverso i loro studi che la competenza sociale sia stata la spinta iniziale per l’evoluzione del linguaggio. “…Prima della comparsa del linguaggio la selezione naturale avrebbe avvantaggiato gli individui che, nell’ascoltare una sequenza di richiami, riuscivano a combinare in modo disciplinato più elementi significativi distinti…gli ominidi assegnavano un significato ai richiami degli altri individui e ricavavano dalle interazioni vocali altrui un’informazione proposizionale, sintattica e soggetta a regole…”.

Con il linguaggio cambia il rapporto con la natura. Inizia la coscienza di sé, che da una parte permette di avere un rapporto più distaccato dall’ambiente e dalla natura: perdiamo la sensazione dell’armonia cosmica, di essere un tutt’uno con la natura; dall’altra comincia la consapevolezza di esistere da soli, ognuno sente di essere parte a sé, una coscienza che comporta l’acquisizione di ulteriori livelli di astrazione e di autoriflessività. Tutto questo da una parte ha costruito l’esperienza della solitudine umana, dall’altra ha accresciuto enormemente gli aspetti intersoggettivi.

La percezione del tempo diventa inevitabilmente storica! Nell’uomo ormai il presente è vissuto sempre collegato al passato e relazionato al futuro. Questo è l’aspetto narrativo che il linguaggio porta con sé: ogni cosa che viviamo fa parte di un approccio più grande del momento immediato. Interpretare significa spiegarsi ogni cosa, raccontarsi sotto forma di sequenze di scene, come l’unico rapporto possibile tra ciò che sentiamo nell’immediato e come lo sistemiamo nella nostra coscienza in una relazione più grande.

Il mindreading e il pretence diventano gli aspetti più importanti dell’ambito narrativo. L’individuo non solo può capire la volontà e il punto di vista dell’altra persona, ma può anche rappresentarseli dentro di sé.

Tale capacità di riproduzione mentale, ci ha permesso di fare piani, di elaborare strategie per il futuro.

Il mentalismo, nel momento in cui permette il riconoscimento dell’altro, non solo ne da una legittimazione, ma modifica l’interazione animale. Si è passati così dalla regolazione della reciprocità sulla dimensione di territorialità/coordinazione a quella ben più complessa dell’individualismo/identità.

                                                Giacoma Cultrera

L’immagine di copertina è stata tratta da wikipedia.

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