La sindrome di BURN-OUT

Esiste una sindrome da stress lavorativo che viene chiamata “burn-out”. Il termine è tratto dalla lingua inglese e fu introdotto da Freudenberger nel 1975 per evocare l’ultimo guizzo di fiammella che si spegne (Maslach,1992).  Più comunemente il termine è tradotto con “bruciarsi o essere bruciato” ed è stato utilizzato per descrivere una sindrome tipica delle “helping professions”.

Maslach nel 1982 la descrisse come caratterizzata da tre assi dimensionali: l’esaurimento emozionale, la depersonalizzazione e la riduzione delle capacità personali.

L’esaurimento emozionale indica la perdita delle risorse personali ed emotive, per cui il professionista ha sensazione di non avere più nulla da dare al paziente e ciò può coinvolgere diverse categorie professionali.

La depersonalizzazione comprende una serie di comportamenti negativi nei confronti dei pazienti come risposte fredde ed impersonali, sentimenti di squalifica verso l’utenza, rifiuto, cinismo, aperta ostilità.

La riduzione delle capacità personali si manifesta con una sensazione di inadeguatezza professionale, che porta ad una perdita di autostima e del desiderio di migliorarsi professionalmente.

Le categorie più a rischio e colpite sono gli operatori di pronto soccorso, quelli psichiatrici, medici, infermieri, specialisti  oncologici, delle terapie intensive e dei malati di AIDS. Il burn-out colpisce tutte le attività lavorative che implicano contatti interpersonali con un certo livello di tensione. Infatti, studi recenti dimostrano che altre categorie professionali come insegnanti e anche i medici di base rischiano per la ripetitività del lavoro, per lo stress che accumulano e la scarsa motivazione il burn-out.

La sindrome è provocata prevalentemente dal contatto continuo con persone portatrici di sofferenza, sia fisica che sociale. Il rapporto tra operatore e paziente è caratterizzato da un investimento emotivo molto forte, ha una lunga durata e impegna gli operatori sul piano personale e umano, oltre che su quello professionale e influisce sulla qualità del trattamento stesso.

Gli aspetti epidemiologici descritti in letteratura vedono la coincidenza di determinati fattori come età giovanile, sesso femminile per il doppio carico tra professione e famiglia, la turnazione lavorativa, il sovraccarico lavorativo.

Il burn-out aggrava spesso sintomi psicosomatici come gastriti, coliti, cefalea, insonnia, tachicardia. In questa fase comincia la stanchezza, l’affaticamento, il senso di colpa, la resistenza ad andare al lavoro con conseguenti ritardi, assenteismi e iniziano a far uso di tranquillanti.

Il burn-out presenta diverse fasi evolutive: la prima è quella di un entusiasmo idealistico, fase in cui il soggetto coltiva grandi aspirazioni e aspettative che, però, non sono aderenti alla realtà: Il soggetto crede in facili soluzioni, si aspetta un successo professionale immediato, allo stesso modo attende apprezzamenti da parte di colleghi e pazienti, è anche entusiasta della struttura in cui opera, si aspetta una crescita costante in campo formativo e investe in modo eccessivo le proprie forze nella struttura. Queste sue valutazioni ci fanno comprendere come c’è psicologicamente uno scollamento dalla realtà con una certa debolezza delle capacità critiche che mancano di reale obiettività.

Dopo un periodo, sottoposto a carichi di stress e di lavoro eccessivi, passa alla fase del pessimismo, perché si rende conto che le sue aspettative non coincidono con la realtà lavorativa. Ciò ha come conseguenza che il superlavoro diventa meno sopportabile, comincia ad avere rimpianti per avere trascurato la propria vita privata, comprende che il compenso in denaro non è adeguato allo sforzo lavorativo, comincia a passare da un iperinvestimento ad un disinvestimento, c’è il forte rischio di cambiare posto di lavoro nell’illusione di potere ancora realizzare le proprie aspirazioni.

Il terzo stadio è quello dell’isolamento e la frustrazione, perché il professionista avverte sentimenti di inadeguatezza ed inutilità, con una forte insoddisfazione che riguardano il rapporto con il paziente, con la struttura sanitaria, con la propria professionalità, provano ostilità verso la comunità, si sentono sfruttati, poco apprezzati e tendono a sfuggire dall’ambiente di lavoro e può essere aggressivo con sé e con gli altri.

La quarta fase è quella della “morte professionale”, perché vengono meno gli ideali, l’autostima e la realizzazione sul lavoro. C’è un tentativo di difesa dalla frustrazione che passa attraverso la rabbia fino all’indifferenza e l’apatia finale.

Studi condotti su campioni numerosi e diversificati dal punto di vista geografico hanno dimostrato che tra tutti gli operatori sanitari, ad esempio, gli infermieri sono più colpiti dallo stress rispetto ai medici e tra questi gli anestesisti. Le strutture sanitarie caratterizzate da una elevata complessità assistenziale, lasciano presumere una maggiore esposizione degli operatori a un eccessivo carico “stressogeno”. Al fine di attenuare il disagio connesso a tale complessità le proposte operative devono mostrare un’adeguata articolazione come creare un punto di ascolto come supporto psicologico per gli operatori; poi formare un vero e proprio gruppo di supporto per pazienti e familiari e formare gli operatori affinchè riconoscano che il processo che porta a sviluppare la sindrome di burn-out trae origine da punti disfunzionali che coinvolgono primariamente il rapporto con gli altri, poi si estendono all’immagine di sé, intaccando il senso di autoefficacia, la stima di sé e il senso di autonomia. Essere aiutati a rivedere i propri atteggiamenti e il proprio stile relazionale incoraggia l’importanza di un cambiamento del proprio comportamento che può prevenire il burn-out.

                                           Giacoma Cultrera

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