Psicofarmaci: utilità e limiti

Dedico quest’articolo alla trattazione sintetica dell’uso di farmaci in psichiatria e in psicoterapia per chiarire quei dubbi e rassicurare su ansie spesso immotivate che insorgono nei pazienti. Quest’uso non è la regola, infatti non sempre è necessario somministrare degli psicofarmaci per curare un disturbo psicologico, perché attraverso interventi psicoterapici strutturati si riesce a debellare la patologia. Questa possibilità, però, non è sempre fruibile, perchè ci sono patologie che per la loro gravità necessitano dell’uso di farmaci che ci aiutano a frenare dei sintomi e ad avviare una più facile applicazione della psicoterapia. Il punto, però, è non avere paura di ciò che non si conosce soprattutto se ci si affida a un bravo medico-psicoterapeuta.

La psicofarmacologia si è sviluppata come disciplina medica all’incirca negli ultimi sessant’anni. La scoperta dei primi antidepressivi, antipsicotici o stabilizzanti dell’umore efficaci si è spesso basata su osservazioni casuali. Le ripetute dimostrazioni di efficacia di questi composti hanno rappresentato un forte stimolo verso una ricerca approfondita delle basi neurobiologiche dei loro effetti terapeutici, nonché della stessa emotività, degli aspetti cognitivi e dei disturbi psichiatrici. La neuropsicofarmacologia ci ha, attraverso ricerche complesse, aiutato a capire un po’ meglio il funzionamento del cervello.

Una molecola per potere essere in grado di trasmettere dei segnali deve soddisfare alcuni criteri. Il recettore rappresenta uno degli elementi fondamentali per la trasmissione sinaptica e per l’azione delle sostanze farmacologiche. Attraverso l’interazione con i recettori i farmaci possono modificare la funzione cellulare e, così, riportare un sistema disfunzionale alla normalità. Un recettore è una proteina che lega una molecola bersaglio (ormone o trasmettitore), venendone attivato, e che attiva un circuito di trasduzione del segnale. La prima caratteristica basilare da esaminare in un recettore è la sua capacità di riconoscere molecole specifiche. I recettori si sono evoluti allo scopo di riconoscere segnali specifici per dare inizio al processo di integrazione dell’informazione neuronale. Per tutti i recettori il sito di riconoscimento è intrinseco alla struttura tridimensionale della proteina recettoriale. Il legame di un neurotrasmettitore o di un farmaco a un recettore comporta l’interazione fra le forze elettriche associate alla molecola del ligando e quelle associate con alcuni dei residui aminoacidici esposti della proteina recettoriale. La biologia molecolare ha modificato tutte le aree della ricerca biomedica e ha assunto il ruolo di paradigma dominante per la conoscenza dei processi patologici e del loro trattamento.  Essa è strettamente associata alla genetica molecolare e offre importanti strumenti per analizzare la funzione di proteine specifiche del sistema nervoso e ha consentito l’identificazione di famiglie di recettori, come i cinque della dopamina.

La biologia molecolare ha rivoluzionato l’approccio alle patologie cerebrali! L’obiettivo principale nei disturbi psichiatrici consiste nell’individuazione delle proteine che determinano il funzionamento cerebrale patologico in modo da potere predisporre trattamenti farmacologici che in maniera specifica correggono il malfunzionamento.

L’elaborazione dell’informazione cellulare inizia a livello di base con un meccanismo di trasduzione del segnale. I segnali vengono costantemente avviati, trasdotti e integrati in tutte le cellule dell’organismo. Nel sistema nervoso centrale, l’elaborazione e l’integrazione dell’informazione sono fondamentali: nel neurone, i segnali consistono in variazioni di voltaggio attraverso la membrana o in variazioni di concentrazioni specifiche di molecole o ioni. Ad esempio, la clorpromazina fu una sostanza sintetizzata da Paul Charpentier nel 1950 e il suo uso era destinato alla chirurgia. Si vide che i pazienti che ricevevano dosi di 50/100 mg per via endovenosa lamentavano una certa sonnolenza, ma sembravano indifferenti all’intervento chirurgico. Laborit rendendosi conto delle potenzialità della sostanza convinse molti psichiatri francesi a somministrare il farmaco a soggetti con psicosi e agitazione. A un anno dall’introduzione della clorpromazina gli ospedali psichiatrici di Parigi si erano trasformati: l’uso di mezzi di costrizione, l’isolamento o la necessità di reparti chiusi diventò un’eventualità sempre meno frequente. I pazienti venivano più recuperati rispetto a patologie psichiatriche molto gravi con consistente riduzione dei sintomi. Certo si registrarono effetti collaterali che la ricerca successiva ha cercato di abbattere e che un uso sapiente del farmaco unito a terapie psicoterapiche o di inserimento sul sociale permette di tenere sotto controllo o annullarli. Le conoscenze sempre più approfondite in campo neurobiologico hanno portato a notevoli progressi nella comprensione della fisiopatologia della schizofrenia. Queste conoscenze hanno condotto allo sviluppo di farmaci antipsicotici atipici di nuova generazione, che hanno minori effetti collaterali e maggiore efficacia terapeutica. Il prototipo di questi farmaci è la clozapina che ha alimentato speranze nei soggetti schizofrenici resistenti al trattamento. È stata la Task Force dell’American Psychiatric Association che ha scritto “…bisogna compiere uno sforzo deliberato e continuativo per mantenere i pazienti al livello minimo efficace di farmaci e per far rimanere il regime terapeutico il più semplice possibile.”

Queste parole fanno ben comprendere come l’uso sfrenato di farmaci non è incoraggiato da nessuna associazione internazionale di rilievo, semmai va ricondotta alla preparazione del medico e al suo modo di operare. Anche in patologie gravi come la schizofrenia, le psicosi maniaco-depressive l’uso di farmaci specifici serve per un appianamento della disfunzione centrale, ma dovrebbero essere sempre associati ad un intervento psicoterapico che permette non solo il miglioramento dei sintomi del paziente, ma l’incremento della sua funzionalità lavorativa e sociale. Personalmente ho esperienza di tanti soggetti schizofrenici che seguiti in modo complesso riescono ad avere un adattamento familiare, lavorativo e sociale assolutamente valido, condizioni che rendono realizzabile il mantenimento a livelli minimi del farmaco e là dove possibile la loro sospensione come nelle forme residue. La terapia va adattata di volta in volta in base ai progressi che il soggetto riesce a fare.

                                               Giacoma Cultrera

L’immagine di copertina è stata tratta da unsplash.

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