Separazione e Perdita: il lutto e la sua elaborazione

Tutti siamo consapevoli dell’angoscia profonda e del dolore prolungato che la separazione o la perdita di una persona amata può provocare nella mente con riverberi anche sulla salute mentale.

Nell’adulto l’intensità del dolore varia da soggetto a soggetto così come la durata delle varie fasi. In genere distinguiamo una prima fase del torpore, che dura da poche ore a una settimana e che può essere interrotta da attacchi di angoscia (Bowlby) o collera molto violenti. Dopo c’è la fase dello struggimento e della ricerca della persona persa, che dura mesi e a volte anni. La terza è la fase di disorganizzazione e disperazione. A questa segue un ultimo stadio che è rappresentato dalla fase di maggior o minor grado di disperazione.

Quando si apprende una notizia molto scioccante come la morte improvvisa del marito amato, il soggetto tende ad avere una reazione di impietrimento, durante la quale la maggior parte delle persone riferiscono, dopo, che non erano assolutamente capaci di realizzare ciò che era stato loro comunicato. Dopo giorni o una settimana cominciano a prendere coscienza della realtà della perdita; ciò provoca pianto, grande turbamento e la persona vive contemporaneamente uno stato di agitazione e preoccupazione, perché vive al contempo il pensiero della persona scomparsa e la sensazione costante della sua presenza. Infatti, tanti segni e rumori vengono interpretati come indizi del ritorno della persona amata. Si ritiene che in questa fase il soggetto sia dominato dalla necessità di rispondere all’impulso della ricerca e del recupero della persona scomparsa. Raramente i soggetti sono consapevoli di questo impulso e tutte le azioni e comportamenti che adottano hanno questa finalità. Le manifestazioni più comuni sono il pianto e l’urlo represso, perché socialmente disdicevole, ma le reazioni sono uguali in uomini e donne.

Molte delle caratteristiche della seconda fase del lutto devono essere considerate come aspetti non solo dello struggimento, ma anche di una effettiva ricerca della figura persa. Ciò è legato al comportamento di attaccamento, che è una forma di comportamento istintivo che si sviluppa nell’uomo nella primissima infanzia, ma che continua ad essere presente anche nell’età adulta. Questo si attiva ogni volta che una persona è malata o in difficoltà o quando è spaventata e la figura di attaccamento non è presente. Gli attacchi di panico che colpiscono nei primi mesi diventano comprensibili, perché la persona colpita comincia a realizzare la realtà della perdita.

Nei bambini di tutte le età, compresi gli adolescenti, le reazioni innanzi ad una perdita grave diventano più nebulose e di difficile interpretazione. In genere rimangono nell’aspettativa del ritorno della persona amata anche se non lo esprimono oppure non ne parlano ma ne negano la morte a livello interiore profondo, per cui la persona persa diventa una presenza che li accompagna costantemente. Questi bambini rischiano di rimanere intrappolati in una realtà immaginaria. Per aiutarli sappiamo che è importante che abbiano accanto una figura permanente di accudimento  a cui potersi gradualmente attaccare. Solo in questi casi ci possiamo aspettare che un bambino accetti lentamente la perdita come irreversibile e riorganizzi la sua vita interiore.

Sembra che una persona colpita da una perdita combatta con il destino con tutto il suo essere emotivo, cercando disperatamente di capovolgere  il corso del tempo. Il soggetto non si adatta alla realtà, che è troppo feroce per lui/lei, ma ingaggia una lotta con il passato. E’ importante rispettare le sue sensazioni, perché se il soggetto si sente compreso e accudito più facilmente può esprimere le emozioni che gli esplodono dentro. Struggimento, collera violenta, pianto sono le sensazioni che una persona colpita da perdita ha bisogno di esprimere. Spesso sono ritenute umilianti e, di conseguenza, restano inespresse.

Una questione importante su cui ci si interroga è perché alcune persone trovano più arduo manifestare le proprie emozioni di dolore. Una ipotesi avanzata ritiene che questo dipenda molto dalla famiglia in cui si è cresciuti e dove il rapporto di attaccamento del bambino è tenuto in scarsa considerazione. Queste famiglie tendono a bloccare il pianto così come la collera. Questo tipo di familiari hanno giudizi critici verso le emozioni e la loro espressione.

Un altro problema, però, è capire perché certi soggetti si rivelano incapaci di superare la perdita. Si pensa che essi spesso abbiano un attaccamento intenso verso il coniuge, tuttavia gran parte dell’autostima e dell’identità di ruolo del sopravvissuto si rivelano dipendenti dalla presenza continua del coniuge, da qui la difficoltà di superare il lutto. Il dolore di queste persone sembra contenere una componente autopunitiva molto elevata. Il trattamento di questi pazienti risulta difficile, perché tendono a diventare dipendenti dalla terapia che in qualche modo per loro supplisce il ruolo mancante. Importante  è anche il ruolo della famiglia, del clero locale, dei servizi assistenziali, della gente che li circonda e che dà loro modo di esprimere le fasi del lutto e di riorganizzarsi emotivamente. Non tutti gli esiti patologici nel superamento del lutto sono attribuibili alla inibizione dell’espressione delle emozioni: a volte si cronicizza quella che noi clinici indichiamo come “sindrome da dolore cronico”, dove la perpetuazione di certi comportamenti sono legati a fratture con la famiglia di origine che rendono più difficile, nel caso di una vedova, trovare incentivi per ritornare ad investire sul mondo esterno, proprio perché mancano sostegno e comprensione.

                                          Giacoma Cultrera

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